di Armando Falcioni

Carlo Mazzone lo voglio ricordare, spero degnamente, con queste mie righe che seguono e scritte il giorno della recente presentazione del film a lui dedicato, lo scorso ottobre.

Carletto Mazzone

 

Scorrevo quelle immagini, già con gli occhi lucidi, ascoltavo quella sigla di “tutto il calcio”, quegli spezzoni di vecchie registrazioni di un calcio antico e quasi sognato, lo “Squarcia” come era una volta e pensavo che ci sono nel nostro immaginario collettivo dei soggetti che se non accoppiati nella mente o non citati insieme se ne toglie il senso, come se privato l’uno, l’altro non esistesse. Ci sono connubi che paiono indissolubili quando citi un personaggio e non puoi non assecondarlo al seguente. La storia ci ha consegnato Romolo e Remo, la rivoluzione industriale Marx ed Engels, il cinema Stanlio ed Ollio, la tv Starsky and Hutch, il romanzesco crimine Bonnie e Clyde.

Ma ieri il fascinoso sipario del Ventidio ci ha consegnato, se mai ce ne fosse stato bisogno, un sillogismo oramai naturale: quello di Ascoli-Mazzone .
Sì, quello che segue il medesimo degli anni settanta ed ottanta di Rozzi-Mazzone. Ma il secondo era legato all’evento calcistico, agli anni dell’epoca, quelli dei pantaloni a zampa di elefante, delle camicie dai colli infiniti, della auto Simca NSU e Giulia Super, i tempi delle tute di lanetta , quelle che dopo una settimana facevano le pallette, azzurrine e bordate di bianco e nero con la scritta Del Duca Ascoli, delle epiche gesta di quelle formazioni recitate a memoria meglio del rosario al catechismo
No, questa è stata una celebrazioni di una città e del suo naturale territorio che lo elegge, ne fa una perenne apologia del personaggio che incarna e della storia che si porta appresso.
E ieri Ascoli, o l’Ascoli se preferite, non usi a dimenticare e non abitudinari dell’ingratitudine, lo hanno fatto dopo questo film profondo e commovente, con questo omone una volta dall’incedere importante, da quel portamento imponente come quello di una collina picena, da quei capelli al vento, naturale idiosincrasia a qualsivoglia pettinatura, da quel profilo dantesco, quel romanesco radicato che farebbe impallidire Trilussa.
E, sembrerà paradossale, nella sua celebrazione autentica di ieri al Ventidio, gli abbiamo preferito, non tanto le 795 panchine( settecentonovantacinque,non errore di stampa) le ovazioni nelle grandi curve italiche, la cura affettuosa e paterna di tanti fenomeni, ma quella oramai storica corsa versa una insolente curva avversaria.
Si. ancora, per quel gesto, gli andiamo in soccorso primo perché chi ha costruito le fondamenta dell’Ascoli Calcio merita imperitura fedeltà, secondo per complicità nata dalla cittadinanza, terzo perché aborriamo in maniera viscerale quel perbenismo di facciata che purtroppo pervase, e pervade, il calcio e mondo giornalistico al seguito.
Quel fariseismo crasso, quel falso scandalizzarsi di fronte ad un atteggiamento vero, da uomo della strada che non ha mai vestito blazer blu in panchina preferendo delle sdrucite tute di terza mano, che non fumò i migliori cubani, che non ebbe in dote la consonante moscia, ma che ci riportò alle vecchie, sane, scazzottate degli anni cinquanta quando “ li mortacci vostra “sostituiva la blasfema bestemmia, il calcio nelle terga era la coltellata di adesso.
Quest’omone anni cinquanta, agli anni cinquanta si inchiodò nel cuore e nei gesti andando con la lentezza di una traia trainata da due ronzini sotto una curva insolente e piena di pregiudizi, con la genuinità di un mercataro di Campo dei Fiori.
Quel ricordare i loro defunti, Mazzone riportò a quella tenerezza del calcio più limpido, convinti che quella mente tutto maturò men che meno insolenza verso Bergamo ed i suoi abitanti, né essere foriero di violenza e sollevazione popolare.
Quel ricordar defunti servì da arcaico uomo di calcio e di mondo, da monito verso l’ignoranza, il pregiudizio, la violenza verso questo calcio a volte inguardabile proprio nei suoi contorni.
E quelli “mortacci “ che questo maestro della tattica e della sapienza creata dall’esperienza rammentò a tutti, servì a certe préfiche della domenica di dismettere giacche firmate e profumi dell’ultima moda e ritornare al calcio autentico, quello del cortile dove “li mortacci vostra “ faceva il paio con le ginocchia scorticate ma era immune dal “mare magnum “ della falsità.
Così mi piace ricordare il nostro, grandissimo poi, al termine di questa celebrazione, calda come una riunione familiare di fronte al focolare domestico, a mettersi a nudo di fronte a quella che, dopo i natali capitolini, è la sua gente.
Sì, di fronte ad un palco inneggiante ha testimoniato con coraggio che il tempo, questa bestia spietata e vorace, ha sostituito le sue basette infinite in rade testimonianze bianche, le sue ginocchia che sostenevano un omone grande e grosso in cerniere allentate, il suo passo da giannizzero in un incedere incerto, il suo sguardo severo in occhi arrossati e lacrimosi, il dito sul naso che invitava a tacere, che campeggia sul manifesto del film, a baci soffiati dal palmo della mano alla platea.
Già, ieri sera Carletto ha compiuto la sua ultima magia tattica, ha motivato la nostra amatissima terra come sapeva fare con i campioni che ha sapientemente allevato, ci ha detto che il tempo, il maledetto tempo, questo lupo famelico che si ciba di foto ingiallite dal tempo, di ricordi struggenti, di ovazioni e cori che si spengono, si può affrontare con la forza e la dignità dell’uomo.
Può stare tranquillo, Questa Piceno non dimentica, come difficilmente ha fatto, perché da tempo lui, a cui auguriamo la più lunga panchina della vita, lo abbiamo già collocato nel punto più alto della nostra inimitabile valle: lassù sulla cima della Montagna dei Fiori, il nostro personalissimo Olimpo, naturale sentinella da sempre, magari avvolta dalle nubi, dove collochiamo i nostri migliori, come facevano i greci con gli dei, a guardia di noi mortali e della nostra amatissima terra.

 

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